«L’Arabo, il Parto, il Siro …» Pensieri di Pentecoste

607 480 Carlo Nardi
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images (1)di Carlo Nardi • «L’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì» (La Pentecoste, 47-48) . Il Manzoni rammenta soltanto tre popoli tra quelli elencati per la Pentecoste dagli Atti degli apostoli. Certo, la lunga lista trasmette il senso dell’universalità delle genti che si affacciarono in un discreto numero sull’incipiente realtà cristiana. Tant’è – si racconta – che un giovane chierico in un fervoroso esercizio di sacra eloquenza ci avrebbe messo anche pellegrini a Gerusalemme provenienti ‘dalle … remotissime Americhe’, anticipando piuttosto i tempi.

Ma l’universalità è quella riferita dagli Atti e di conseguenza dal Manzoni, per cui ciascuno dei presenti sentì e capì nella propria lingua. Mi spiego. L’effetto della Pentecoste, frutto e dono dello Spirito Spirito, non è la strutturazione di una lingua della Chiesa. Piuttosto la Chiesa può e dev’essere intesa nella sua globalità in tutte le lingue. Non c’è una lingua cristiana, ci sono – e ci devono essere – cristiani che nella loro totalità parlano tutte le lingue.

Certo le Scritture ispirate si ricevono in ebraico – con qualche brano in aramaico – e in greco. In tal modo s’imparano parole care alla fede, al culto e alla vita cristiana, parole che sono detti da custodire e trasmettere. Ancora. Sono parole che, in qualche modo e con qualche rischio, vanno tradotte. Lo chiede la concretezza del Figlio di Dio che ha voluto parlare con lingue di uomini, in prima istanza in ebraico, aramaico e in greco. Egli ci dice che il vangelo va predicato, va inteso e a sua volta detto, e, perché sia pienamente compreso, va detto in ciascuna lingua.

Tra i popoli il Manzoni cita arabi, parti, ossia persiani, e siri. Le lingue del titolo della croce erano ebraico, greco e in latino ed esprimevano una loro legittimità all’interno all’Impero romano. Invece negli Atti i popoli della Pentecoste parlano dialetti o lingue a mala pena tollerate, marginali rispetto al greco e al latino. Anzi, i popoli ricordati nella Pentecoste del Manzoni sono in gran parte fuori dell’Impero. C’è perfino la lingua dei nemici allora più pericolosi, i persiani. Ma tutti sono chiamati a intendere e dire l’unico vangelo.

L’ignoto autore della Lettera a Diogneto nel secondo secolo lo fa ben capire, quando dice che i cristiani non si distinguono dagli altri uomini per territorio, lingua, modo di vestire, perché ogni terra è loro patria ed ogni patria è in certo modo terra straniera, perché il cristianesimo non è un ritrovato umano, ma rivelazione e dono di Dio. Si direbbe: non è un pezzo di mondo accanto ad altri, ma è l’“anima del mondo”. Secondo il vangelo, il cristianesimo è lievito della pasta: non è come il mondo, non è come la pasta, ma è nel mondo, nella pasta. Perché è per la vita del mondo. Del resto d’altri modi per fare il pane non ce n’è.

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