Il «Dizionario dell’omo salvatico» ricomparso sotto la polvere

300 430 Francesco Romano
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zzzzpapgiuldi Francesco Romano • In un’accaldata giornata di ferragosto trascorsa in visita alla casa paterna, ormai quasi disabitata, il richiamo verso la biblioteca è stato un moto attrattivo, come un antico riflesso condizionato che, portandomi a sbirciare qua e là tra gli scaffali, mi ha subito immerso in una ricerca senza ragione, desideroso di veder riaffiorare ricordi nascosti tra migliaia di libri avvolti dalla polvere, antichi di molti secoli e anche più recenti. Basta estrarne uno per trovarmi tra le mani il “De iure belli et pacis” di Ugo Grozio edito nel 1765, oppure un altro stampato nel 1552 dal titolo “Institutiones iuris civilis” di Giustiniano, con il commento in ogni pagina disposto sui quattro margini a modo di recinto; il “De universi iuris uno principio et fine uno” di Giovan Battista Vico, del 1720; la “Storia naturale” del Di Buffon del 1782; le “Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise nei suoi quartieri” di Giuseppe Richa, in dieci volumi dal 1754 al 1762; le “Tragedie” di Seneca del 1667, un piccolo volume con copertina in pergamena che alla fine degli anni ’70 ricordo di aver acquistato sulla bancarella, ancora presente nella piazzetta di lato al liceo Galileo davanti alla chiesa di San Giovannino degli Scolopi, per sole diecimila lire forse perché il bancarellaio lo aveva scambiato per un libriccino di devozioni essendo scritto in latino, cosa che allora accadeva di frequente. Che dire poi di numerosi ex libris, vere piccole opere d’arte di incisione tipografica, e moltissimi altri libri accresciuti di numero anno dopo anno fino alla fine del secolo scorso e poi rimasti lì come dimenticati, ma pronti a rimproverarmi il tradimento per la mia lunga assenza.

Libri che da sempre ricordo presenti e familiari alla mia vista, ma anche molti da me acquistati fin dagli anni del ginnasio cercando e ricercando ogni giorno come un rito sulle numerose bancarelle, così diffuse un tempo per le strade del centro di Firenze o nei negozi di libri usati, frugando a casaccio nelle ceste o tra gli scaffali per tentare la fortuna sperando di trovare qualcosa di interessante, magari sfuggito ad altri che vi avevano rovistato appena prima di me. Così ricordo che, ancora studente liceale, comprai il mio primo “tesoro” trovato su un barroccino che ancora oggi staziona sotto i portici di Piazza della Libertà. Si trattava delle “Heroides”, una raccolta di epistole di Ovidio, edita nel 1574, dalla copertina in pergamena fissata al volume con stringhe di pelle che attraversano la costola come una cucitura. In quel momento avevo solo venticinquemila lire risparmiate tra una paghetta e l’altra. Il costo era di trentamila. Per avere lo sconto me la cavai con una battuta dicendo al venditore che quel libro era “un po’ vecchiotto”. Prontamente lui replicò “ma cosa dici, sono io un po’ vecchiotto!”, senza però indugiare nel porgermi quel desiderato libro al prezzo a me conveniente. Col batticuore tornai speditamente a casa per gustarmi la preda che avevo scovato e subito tentare di decifrare sul foglio di guardia le firme con le date che segnavano i passaggi di proprietà da un secolo all’altro, come pure le annotazioni ai margini delle pagine scritte con un inchiostro color seppia che a volte aveva perforato la carta.

Nel mio frugare oggi qua e là, come un tempo facevo sulle bancarelle, la mia attenzione si sofferma su alcuni libri ingialliti, con la copertina e le pagine fragilissime come bruciate dal calore del sole, nella loro prima edizione, sono Domenico Giuliotti, Giovanni Papini, Federico Tozzi, Ardengo Soffici, Filippo Tommaso Marinetti, Giuseppe Prezzolini, Aldo Palazzeschi, Roberto Ridolfi, e via via altri di quell’epoca, finché ne estraggo uno poggiato in orizzontale sugli altri, e mi ritrovo tra le mani il “Dizionario dell’omo salvatico” composto a quattro mani da Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, edito nel 1923 dalla Vallecchi.

Un’epoca assai feconda fu quella che vide i due autori aspramente, ma lealmente contrapposti sul piano letterario come duellanti rusticani, che ci riporta ai primi decenni del novecento, segnati dalla rivista “La Torre”, organo della reazione spirituale italiana del cattolicesimo tradizionalista, fondata nel 1913 da Domenico Giuliotti e Federico Tozzi. Già nel primo numero uscito il 6 novembre 1913 Giuliotti rendeva bene l’idea dell’orientamento della rivista scrivendo “La nostra fede è un inginocchiatoio e un coltello. La tolleranza è indifferenza: chi crede vuole che gli altri credano. Noi siamo intolleranti”. La rivista “La Torre” prendeva di mira la modernità in generale e in particolare il razionalismo, il modernismo e il futurismo.

L’altra rivista su cui risaltava aspro il confronto tra le parti si intitolava “Lacerba” che vide la luce il 1° gennaio 1913, fondata da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, dopo essersi staccati dalla rivista “La Voce”. Sulla linea della rivista “Il Leonardo” fondata dallo stesso Papini nel 1913, Lacerba fu caratterizzata dall’adesione al Futurismo e dal nichilismo, esprimendosi con aspra e violenta polemica contro il conformismo e le espressioni borghesi dell’arte e del costume. Lacerba cessò la stampa nel 1915.

Sulle pagine di Lacerba Papini coniò l’espressione “cattolici belve” per demolire la rivista del Tozzi e del Giuliotti. Sulla stessa rivista Papini scriveva: “Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio. Le nazioni vadano in sfacelo, ma crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca. Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desiderio di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c’è un piano superiore dell’uomo intelligente e spregiudicato in cui tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!”. Non tarderà a giungere la risposta del Giuliotti su La Torre: “La religione è l’unico cemento che non screpola, collega fra di loro le pietre dell’edificio sociale: togliete la religione e procederete ciechi a quattro zampe, tra le macerie e gli sterpi. La religione è il cattolicesimo. Il Vangelo è il Tempio dell’assoluta Verità vivente. La Chiesa cattolica ne è la porta”.

Nell’arco di dieci anni, le due figure così distanti per posizioni ideologiche e di credo religioso, ma così speculari nel loro carattere aspro e ruvido, ebbero un progressivo avvicinamento che sfociò nella conversione del Papini e in una strettissima amicizia durata per un quarantennio fino alla morte, avvenuta per entrambi nello stesso anno, il 1956.

La conversione del Papini, come già era avvenuto per Giuliotti, aveva fatto seguito a un lungo e turbolento percorso. Dalla prima confessione del Papini che si esprimeva nel titolo della sua opera “Un uomo finito” del 1912, occorrerà attendere gli anni successivi alla prima guerra mondiale per vedere venire alla luce “La storia di Cristo” pubblicata nel 1921 che segnava il traguardo raggiunto della sua conversione. Un percorso accompagnato e sostenuto dall’amicizia del Giuliotti, quel “cattolico belva” come ebbe a definirlo il Papini su Lacerba negli anni dissacratori, finendo egli stesso per riconoscersi in questo attributo come un suggello della sua conversione.

Il “Dizionario dell’omo salvatico” segna la pietra miliare di un’amicizia che si integra pienamente nella condivisione alla stessa fede religiosa. E’ significativa la disposizione sulla copertina delle parole che compongono il titolo in modo da dare forma all’immagine della croce. L’intenzione iniziale del Papini e del Giuliotti era di pubblicare un’intera enciclopedia, ma vide la luce solo il primo volume che includeva le lettere A – B. In linea con ciò che il titolo evoca, il tono con cui si esprimono le voci del dizionario è scurrile e dissacratorio: “Non indulgo alle mezze tinte. O bianco o nero; o si o no. Chi dice forse, mi ripugna. Ecco perché il mio stile non rifugge dalle espressioni più volgari: non posso chiamar cigno un porco, né lo sterco ambrosia”. Con il titolo “Dizionario dell’omo salvatico” gli autori ricorrono a questa immagine per indicare il punto di vista che ispira le voci, quello di un personaggio mitologico che vive isolato nei boschi.

Il “Dizionario dell’omo salvatico” prende di mira gli illuministi enciclopedisti, i massoni e i socialisti, i democratici. Non mancano fin dalle dediche introduttive all’opera, gli attacchi contro i “cattolici chiocciole” che restano protetti dal loro guscio per non vergognarsi di dare testimonianza della loro appartenenza religiosa. I “cattolici belva” dicono di se stessi “noi amiamo di cristiano amore le chiocciole, ma preferiamo andar per il mondo vestiti, come il gran Salvatico Giovanni nostro patrono, di pelli di belve” che a differenza di loro non accettano di venire a patti con la civiltà moderna.

L’omo salvatico è il cristiano che si riconosce nell’uomo rozzo e primitivo che resiste eroicamente riuscendo a sopravvivere nei boschi per restare indenne da contaminazioni che hanno infestato l’animo degli europei fin dall’umanesimo e dal protestantesimo, attraversando l’illuminismo, le correnti filosofiche, la rivoluzione industriale e l’idea di democrazia: “All’omo salvatico sembra che i due secoli (il ‘700 e l’800) siano stati egualmente nefasti. Uno ci dette Voltaire e l’altro Renan, che fu un Voltaire più dotto ma più ipocrita; il settecento ebbe il Terrore e l’ottocento la Comune; il primo scaraventò sul mondo l’Enciclopedia e il secondo i libri di Hegel, Haeckel; uno inventò la democrazia e l’altro l’applicò fino alla nausea”. E’ evidente l’intenzione degli autori di depurare l’età moderna dalle residue incrostazioni dell’illuminismo.

L’aneddotica è stata molto feconda nel tentativo di spiegare perché il Dizionario si sia fermato alle prime due lettere dell’alfabeto. Certo è che l’intenzione degli autori con il messaggio che volevano lanciare si era già pienamente realizzata anche con il solo primo volume. Nondimeno, l’interesse di questa opera per lo studioso va oltre le contingenze di quel momento, ma per molto tempo la conoscenza del “Dizionario dell’omo salvatico” è stata appresa dai più solo come un titolo letto su qualche manuale di storia della letteratura, finché dopo ben ottantanove anni, rimasto simbolicamente sepolto sotto la polvere, nel 2012 l’opera è tornata negli scaffali delle librerie per iniziativa dell’Edizioni Il Cerchio. Una ingiustificata “dimenticanza” dal sapore oscurantista che fa il pari con lo stile di questo libro.

Cambiano i tempi, le mode letterarie e le ideologie. Un aforisma giuridico suona “tempus regit actum” che trasposto al nostro caso sapientemente ci illumina che la cultura a noi contemporanea non deve farci voltare lo sguardo per pregiudizio da ciò che è ormai a noi lontano per il tempo e l’interesse. Per capire il passato occorre calarci in esso. Le schermaglie tra riviste letterarie e gli scontri rozzi e virulenti tra Papini e Giuliotti non possono smettere di interessarci, anche se anacronistici e appartenenti a un mondo lontano dal nostro.

Per questo posso dire con orgoglio che tra i tanti libri impolverati della mia ritrovata biblioteca non esistono tracce di alcun pregiudizio. Per esempio, a riprova di questo, oltre al “Dizionario dell’omo salvatico”, mi sono ritrovato tra le mani per caso anche il “Libretto rosso di Mao” nell’edizione originale, un acquisto che feci con interesse pur senza nutrire attrazione per quella ideologia.

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Francesco Romano

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